Cara Italia ti scrivo, così mi distraggo un po’… – Lo Stradone

Cara Italia ti scrivo, così mi distraggo un po’…

Sentirsi parte di una nazione. Sentirsi italiani. Sentirsi uniti. La speranza ci è sorella, la bellezza della nostra terra italiana segue questo. Io ti amo Italia. Ti amo nonostante tu non creda alle forze nascoste del Sud. Nonostante tu abbia paura di mostrarti matura e capace di costruirti. Hai sofferto e gioito, hai visto una Coppa del Mondo innalzarsi sulla germanica terra, hai visto tuoi figli morire per portare pace. Hai gioito nel vedere tanti credere nei valori dell’Unità e ora soffri nel vedere chi un po’ ingiustamente non canta il tuo essere e spera che solo una parte di te viva. Dimentico forse che gli ideali leghisti alla fine sono quelli risorgimentali, dell’unità contro l’Impero di medievale memoria. La retorica di questi giorni ti confesso non mi piace. Non mi piace per nulla questa autocelebrazione che sa poco di storia. Un Cavour, un Garibaldi, un Mazzini non sono da meno di altri come tanti cattolici sensibili (Gioberti, Rosmini, Pio IX ) che paritempo amavano te e le tue radici. Di certo non cambierei mai da storico quel XX settembre che è il nome dell’antica Piazza del Progresso qui a Martina Franca. Non lo cambierei per rispetto di quella data, perché è comunque un evento storico che ha formato la nazione e perché ormai non c’è più nulla di massonico nel ricordare questa data legandola al 1870. Stavo pensando a quanti italiani cattolici abbiano fatto l’Unità. Una marea, conosciuti e sconosciuti. Quanti la fanno tuttora. Quanti onesti cittadini, di tutte le fedi politiche e religiose la stiano costruendo nonostante la radice dei giovani sia la più bistrattata. Sia la peggiore da immaginare. La peggiore da seguire. Cara Italia chi crede nei valori di una bandiera, nei valori del bello che si mostra dinanzi agli occhi seguendo il vento e illuminando ogni giorno il nostro sguardo crede anche che una soluzione ci sarà a ogni problema. Camminando per le strade delle città italiane si respira sempre un sapore di famiglia. La vittoria italiana è quando vedi un disabile aiutato ad attraversare la strada nonostante una barriera architettonica sul marciapiede, quando quella ragazza che ha talento continua a scrivere della propria città che non le crede senza timori nel suo lavoro di giornalista, quando c’è anche un anziano che può occupare una panchina nella piazza centrale del paese respirandone l’aria con un sorriso, quando ogni città accoglie senza cacciare l’immigrato, quando la responsabilità per le generazioni future si imprime nel Dna. Insomma quando sulle contrade, sulle colline, sulle montagne, nelle campagne piene di ulivi l’unica speranza è in uno stivale che possa camminare ritto sulla via del futuro. Non è mai sconvolgente sentire dire che siamo italiani. E’ difficile viverlo e crederlo. C’è chi pensa che l’acqua del Po sia salutare, c’è chi crede che tutto vada bene, c’è chi crede che la Chiesa non debba intrufolarsi nello Stato. Io credo che la nuova generazione di politici cattolici non possa prescindere da un investimento culturale e sociale. Ma si deve dar loro fiducia. Bisogna accudirli. Farli entrare anche nei partiti. Se davvero cattolici autentici daranno una svolta contro derive massoniche sempre presenti. Ma è su questa nazione che dobbiamo regalare futuro. Una giornata dell’unità non deve esistere. Deve prima essere ogni qual volta ci sentiamo sconfitti dall’arte dell’arrangiarci. Non siamo unico popolo se ci piangiamo addosso, se non ci si aiuta. Solo inseguendo una sfera in un campo di calcio diventiamo uniti. Sembra questa la dura legge italiana. Uniti ma divisi comunque.

Crediamo nell’Italia che si progetta, che si rialza, che ha cuore. Il cuore pulsante della nostra nazione è sempre Roma. La madre della storia mediterranea, la madre del mondo. A lei si guarda sempre. Ci si emoziona a camminarne la vita, ci si commuove pensando che lì batte il cuore della storia. Ma la bellezza di ogni italiano non è forse nella sua capacità di sperare più del dovuto? Quando il progetto unitario sfavillò nelle menti non era che un barlume di speranza. Ora la realtà è che la speranza sia stracciarne le vesti, mettere in croce quel sacrificio risorgimentale, negare l’evidenza storica di tantissimi che hanno amato lo Stato italiano. Il sacrifico risorgimentale ha chiesto un prezzo elevatissimo quali lager savoiardi per attenuare il puzzo di quelli del Sud borbonico, di vescovi costretti a proteggersi da anticlericali che potevano sopprimerli da un momento all’altro, di campani, lucani, calabresi e pugliesi passati per le armi solo perchè protestavano per il peggioramento delle condizioni nel passaggio dai Borboni ai Savoia. Eppure…L’Italia è stata la prima nazione ad avere autocoscienza del suo essere unita prima delle altre. La cultura, l’arte, le città arroccate sulle colline, le porte d’Oriente della Puglia pronte per accogliere, le strade dei pellegrinaggi, i Polo che dipingevano l’Oriente erano sempre fieri della loro provenienza. Insomma. Mai fummo uniti di più che nella cultura. Quando sento che con questa non si mangia la tristezza mi prende. La perdita dell’identità nazionale passa per l’elogio dell’ignoranza e del soggettivismo in cui siamo caduti, senza la forza dello spazio e del tempo in cui si progetta e si vive. L’Italia ora è monca, è precaria spiritualmente ed economicamente. Eppure abbiamo un cuore che batte forte non al Va Pensiero (canto di liberazione, cantato per unire e non per dividere) ma a quell’introduzione dell’inno che ci emoziona ai Mondiali. Il “celodurismo” vero è quello di un cuore italiano che batte forte per l’accoglienza, per la bontà, per il nostro essere poeti e navigatori, conquistatori di fiducia, di solidarietà, di bene comune. Cara Italia. Coltiva il cuore e parla la lingua unica che ti contraddistingue: la speranza.

Antonio Cecere