Sarà il grande artista Moni Ovadia a calcare il palco del Teatro Verdi lunedì 28 gennaio, alle ore 20.30 (sipario alle 21,00) con lo spettacolo “Senza Confini. Ebrei e Zingari”.
Continua la Stagione Teatrale 2013/2013 organizzata dal Comune di Martina Franca – Assessorato alle Attività Culturali in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Regione Puglia – Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Turismo, Archeo’s, e le Associazioni Culturali “Le Quinte” e “Sirio”.
Dopo il successo dello spettacolo di Patrucco all’interno della rassegna “Comic”, si torna al teatro d’autore con un appassionato contributo alla battaglia contro ogni razzismo.
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Gli ebrei e il popolo degli “uomini” per secoli hanno condiviso lo stesso destino. Il tratto comune che ha segnato la loro storia spesso tragica per colpa delle Nazioni che li tolleravano o li perseguitavano, ma sublime per loro esclusivo merito, è stata la condizione di “altro”. Ebrei e “uomini” hanno per secoli incarnato per ragioni simili e specifiche, la radicale “alterità” alle culture dominanti dell’occidente cristiano. Gli ebrei per avere rifiutato la verità assoluta del Cristo che i poteri ecclesiastici volevano imporre, gli “uomini” pur avendo accolto il Cristo non volevano omologarsi ai modelli di vita e al conformismo dominante estraneo al loro spirito di libertà. Il nomadismo non era vocazione originaria, ma solo una risposta di dignità e di indipendenza per rispondere alle persecuzioni. I due popoli chiedevano solo di vivere secondo la loro identità senza nuocere a nessuno. Non fu loro concesso se non in brevi periodi ad arbitrio dei poteri, espressione delle maggioranze. Perché? Il loro esempio poteva rivelarsi deflagrante per sistemi tirannici, verticisti sempre sotto il controllo di un potere autoreferenziale. Essi seppero essere in tutto e per tutto popoli, per cultura, tradizioni, spiritualità, per profonde strutture del sentimento, per immediata riconoscibilità emozionale, popoli in tutto e per tutto, ma senza confini, senza burocrazie, senza eserciti, senza polizie, senza retorica patriottarda, eppure popoli, sospesi fra cielo e terra a cavallo dei confini, per questa ragione erano temuti al punto da renderli fantasmi come capaci di ogni nequizia e da stigmatizzarli come essenza del male, e poi sterminarli con facilità. In questa prospettiva non è difficile capire perché l’annientamento fu perpetrato nella quasi totale indifferenza del mondo circostante. I due popoli fratelli a lungo hanno marciato fianco a fianco nella sorte, ma da quando il porrajmos-shoà ha marcato il culmine della comune tragedia, il popolo degli “uomini” si è avviato verso un cammino di sofferenza solitaria. Gli ebrei hanno cambiato la loro storia, hanno conquistato una terra, una nazione e il loro statuto di vittime del nazifascismo. Il loro immenso calvario ha avuto pieno riconoscimento e un immenso edificio di testimonianza, di memoria è stato costruito sulla Shoà e anche se la condizione ebraica è talora difficile, ancora sottoposta a pericolo, gli ebrei sono entrati nel salotto buono. Anche gli eredi dei persecutori di un tempo si mostrano e si dicono loro amici. Il popolo degli “uomini” invece molto spesso continua a subire il calvario del pregiudizio, dell’emarginazione. Ancora oggi è costume diffuso discriminare, emarginare, perseguitare bastonare gli “uomini”, ancora si possono bruciare le loro povere cose, ancora la polizia può vessarli e restringerli. Il porrajmos non è stato riconosciuto, grazie ad ignobili cavilli burocratici, il popolo degli “uomini” aspetta ancora giustizia e rispetto. Noi ebrei, primi fra tutti, abbiamo il dovere di alzare la voce contro la persecuzione di rom e di sinti, dobbiamo denunciare come malvagia e perversa l’esibizione dell’amicizia verso gli ebrei quando è usata per legittimare la mano libera contro i nostri fratelli “uomini” e contro ogni minoranza o alterità.
“Ebrei e zingari è un recital di canti, musiche, storie rom, sinti ed ebraiche – ha dichiarato Moni Ovadia, regista e attore dell’opera – che mettono in risonanza la comune vocazione delle genti in esilio, una vocazione che proviene da tempi remoti e che in tempi più vicini a noi si fa solitaria, si carica di un’assenza che sollecita un ritorno, un’adesione, una passione, una responsabilità urgenti, improcrastinabili. Senza confini è la nostra assunzione di responsabilità, la sua forma s’iscrive nella musica e nel teatro civile, arti rappresentative e comunicative che possono e devono scardinare conformismi, meschine ragionevolezze e convenienze nate dalla logica del privilegio per proclamare la non negoziabilità della libertà e della dignità di ogni singolo essere umano e di ogni gente”.