Come imparare a scrivere. A Carrisi è servito un temporale – Lo Stradone

Come imparare a scrivere. A Carrisi è servito un temporale

«Non leggo thriller, non è il mio genere.» L’eco perentoria della frase mi risuona in testa come se l’avessi pronunciata un minuto fa. Ebbene sì: l’ho detto. Il destinatario della presa di posizione era Giovanni, il mio libraio di fiducia. Era il 1999 e il temerario cercava di rifilarmi in tutte le maniere il tomo di tale Michael Connelly, titolo: Il ragno.
Per dovere di cronaca aggiungo che ci troviamo al Sud, in una piccola libreria di fronte al mare. Quando l’amena località balneare si svuota di turisti, diventa il mio posto segreto. Niente villeggianti che ciabattano fra gli scaffali in cerca di facili bestseller: solo io e i libri. Una goduria. Li compro in quel posto da una vita, perché mi sono accorto che lì i libri hanno un odore. Salsedine. E’ come se stagionassero durante il lungo inverno, impregnandosi degli umori marini che poi mi seguono nei viaggi che compirò accompagnato dalla storia che ho prescelto.
Di Giovanni mi fido, conosce i libri e le persone, e da sempre si adopera per favorirne l’incontro. Per esempio, quando uno sconosciuto varca la soglia della sua libreria, a lui basta una profonda occhiata per intuire cosa è venuto a cercare, e questo anche se lo sconosciuto stesso non ne ha idea!
Non so come faccia, ma ci azzecca sempre. Quella volta ci ha provato anche con il sottoscritto, insistendo per farmi leggere un romanzo che a me, amante di Simenon e Agatha Christie, sembrava un testo eretico.
«Vabbe’, facciamo così: lo prendi, lo leggi e, se non ti piace, non me lo paghi.»
Temevo lo dicesse. E’ la frase che usa sempre quando piazza fra le mani di qualcuno un libro inaspettato. Non esiste replica e non c’è modo di rifiutare. Lo fa anche con gli estranei che entrano per la prima volta nella sua libreria.
«Poi tornano sempre», ribadisce sibillino, «perché quel libro gli ha cambiato l’esistenza.» E io mi domando: doti divinatorie o fiuto per i polli?
In ogni caso, Connelly finisce nel sacchetto degli acquisti insieme a un paio di altri testi di cui adesso – a molti anni di distanza – non ricordo nemmeno il titolo.
All’epoca ero un praticante legale di ventisei anni, con una laurea in Giurisprudenza conseguita con il punteggio di 109/110 (quel punto mancante l’ho sempre interpretato come un monito del destino a non fare l’avvocato!), e nel cuore l’angoscia dello scrittore incompreso: avevo messo al mondo un paio di brevi romanzi ma gli editori continuavano a rifiutarli (rileggendoli oggi, direi che avevano ragione).
Una volta arrivato a casa, Il ragno di Connelly sparì sotto una pila di libri sul mio comodino e me ne dimenticai. Ogni tanto la pila si abbassava e lui rispuntava fuori, ansioso del proprio turno.
Ma, inevitabilmente, ricacciavo quell’oggetto ostile e misterioso in fondo al mucchio, preferendogli altre letture.
Questo accadeva durante i mesi peggiori della mia esistenza.
Avevo scritto per il teatro, lavorato come autore e speaker in radio, ma nessuno sembrava accorgersi di me. Iniziava a serpeggiarmi nell’anima la paura di dover rinunciare ai miei sogni e a ciò che mi rendeva vivo: scrivere.
Gli invii a pioggia dei miei lavori alle produzioni cinematografiche e teatrali, nonché alle case editrici, continuavano senza sosta.
I silenzi pesavano più dei dinieghi. La notte mi dibattevo, urlando con la faccia nel cuscino perché nessuno «mi capiva».
Poi un temporale cambiò tutto.
Sin da bambino avevo l’abitudine di recarmi in libreria alla fine di agosto per scegliere un giallo che mi facesse compagnia ai primi maltempi di settembre. Mi sarebbe servito ad alienare la fine dell’estate e l’inizio della scuola. In famiglia avevamo l’abitudine di trascorrere in campagna il cambio di stagione. Così, al primo temporale, si accendeva il camino e io sprofondavo in una vecchia poltrona con il dolce peso di un libro fra le mani. Profumo di resina nella stanza e di mare fra le pagine consigliate dal buon Giovanni.
Ma il temporale che mi ha stravolto la vita apparve con un tuono notturno che mi svegliò di soprassalto. Faticavo a riaddormentarmi e mi venne l’impellente voglia di un giallo con cui consolarmi.
Perlustrai la pila, ma l’unico che trovai fu il famigerato thriller di Connelly. Stavo per nasconderlo nuovamente a me stesso, ma ci ripensai perché mi sentii in colpa: io che chiedevo al mondo di leggere le mie storie, non ero disposto a concedere neanche un minuto a quell’autore.
E così lo aprii. Ricordo perfettamente il gesto e l’impatto con l’incipit. Fui risucchiato nella pagina. Non riuscivo a staccarmene.
Dimenticai il sonno e la pioggia. Poi l’alba giunse senza che nessuno l’avesse invocata.
Non riuscii a finirlo in quelle poche ore e la mattina mi recai in tribunale come le altre volte, ma segnato da profondissime occhiaie.
Avvertivo ancora il sapore della storia, che mi accompagnò per l’intera giornata, insieme al pensiero dell’appuntamento che avevo con quel libro, fissato per la sera stessa. Sapere che Il ragno mi attendeva sul comodino aveva il potere di rendere speciali quelle ore. E’ una qualità che solo certe storie possiedono. Ti appartengono, e tu appartieni a loro.
Non furono solo le vicende narrate e i personaggi a catturarmi, fui illuminato dalla «struttura» di quel tipo di racconto. Così equilibrata, armonica, matematica. Ogni volta che una pagina si spegneva davanti ai miei occhi, avevo subito l’istinto di voltarla.
Non me ne accorgevo, ma mi stavo già impadronendo dello stile.
Nelle settimane che seguirono, rilessi più volte il libro e acquistai altri romanzi di Connelly. L’esercizio era sempre lo stesso: calcolare la lunghezza delle frasi, dei capitoli, contando la punteggiatura.
Per aiutarmi, ricopiavo interi passi.
Avevano una musica dentro.
Ero stupito e ammirato, perché il thriller – con mia grande sorpresa – non era un genere definito, ma un insieme che conteneva tutti gli altri.
Un mese dopo provai ad applicare le regole che avevo desunto e iniziai a scrivere. Così venne fuori Lobos, un soggetto cinematografico.
In realtà, poco più di una «traccia», senza un finale. Cinque braccia sepolte, una squadra investigativa capitanata da un ombroso criminologo che cresceva da solo un figlio piccolo dopo che la moglie l’aveva lasciato, una cacciatrice di bambini scomparsi con un segreto e molte cicatrici sulla pelle.
Non lo sapevo, ma avevo appena gettato le basi del romanzo che mi avrebbe fatto diventare uno scrittore. Il suggeritore è nato così.
Ho inviato quel soggetto a cinque produzioni cinematografiche non perché speravo che diventasse un film, ma per dimostrare cosa sapevo fare. Mi hanno risposto in tre. Ne ho scelta una. Ho abbandonato la pratica legale, mi sono trasferito a Roma e ho iniziato il lavoro di sceneggiatore.
Negli anni che sono seguiti ho continuato ad alimentare quella storia. Il resto è noto.
Il ragno di Michael Connelly nel 2000 ha vinto il premio Bancarella.
Quasi dieci anni dopo, sarebbe toccato al Suggeritore. Se non è destino questo…
«Non leggo thriller, non è il mio genere.» Oggi a quelli che mi dicono questa frase rispondo con un sorriso che non bisogna mai precludersi alcuna avventura. Perché da allora io leggo tutto, compresi i romanzi rosa. I libri bisogna sempre aprirli, liberando le parole dalle pagine. Potrebbero nascondere una magia, e sarebbe un peccato perderla.
Perché Giovanni aveva ragione: un libro può cambiarti l’esistenza.
Aggiungo io: a volte, anche un libraio.

Donato Carrisi
Brano tratto da “I libri ti cambiano la vita”, di Romano Montroni (Longanesi).