Dialetto, risate, canti e storie d’un tempo che fu e di un tempo che sarà. Vorticose immagini cantate e raccontate con ironia. Simpatia, lacrimucce strappate, sorrisi e la storia di un paese rivive. Martina Franca ha un cuore, ha una sua identità che passa dal dialetto, dalle proprie tradizioni, dal proprio tramandarsi storie, racconti che in vernacolo danno quel sapore in più non riscontrabile in italiano.
E tu che ascolti gli spettacoli della Accademia d’a Cutizze ti accorgi che il tempo non passa mai. Che sempre qualcuno insegue il passato facendolo rivivere dai propri sentieri interrotti, ti porta nelle n’chiostre martinesi che, frutto di un’architettura urbanistica singolarissima, sono state anche frutto di tante amicizie, di tanti amori fra generazioni lontane, luogo d’incontro e di bellezza di sguardi furtivi, di dicerie, di strani avvenimenti. Insomma il ritorno al Sud di un tempo sta ora passando per Martina Franca.
A chi ascolta gli spettacoli dell’Accademia, vero e proprio luogo di formazione culturale che fa rivivere qualcosa che sembra lontano nel tempo, che studia il vero modo di scrivere e parlare in martinese, appare di trovarsi sullo Stradone, sulla piazza principale del paese. Sociologicamente ancora l’agorà, la piazza centrale ha un valore forte al Sud. In Italia non appaia strano di ritrovarsi al Sud con quel modo di fare che sembra allontanare depressioni. Anziani che si raccontano le stesse mille storie, tutte sfaccettate di colori, di sapori. L’Accademia come la piazza recitata e portata a vita su un palco. Profumi che da ogni parte del centro storico un tempo spaziavano fra gli olfatti di chi andava alla messa domenicale, capaci di trascinare l’addormentato mattutino alla ricerca di quel pulupitt mancante, capaci di guidare lo sguardo alla ricerca del buono da mangiare a u’marchèt del mercoledì, vissuti nella prospettiva dello stare insieme e dell’accordare le fila del proprio cuore insieme. Il martinese fatto rivivere così acquista un deciso profumo di nostalgia ma anche di speranza, un forte accento di gioia. Certo non manca quella ricerca affannosa di un amore lontano, di un bacio non dato con in sottofondo le campane martinesi che suonano a distesa nella domenica mattina. Capaci di far sognare, di pensare che davvero la bellezza possa salvare una città. A Martina mancava l’unire le storie in teatro, mancava mettere insieme le novelle di una storia. Martina apparentemente aristocratica, pomposa e vivente nell’ostentata apparenza di modi di fare e di farsi notare nasconde, sotto quel fenomeno che è, un altro gusto, una verace armonia che è proprio il dialetto. Se si andasse a Parigi il martinese saprebbe parlare il francese ( pèn, sèl sarebbero le prime cose acquistabili ), ma come raccontano le antiche ricerche linguistiche c’è nella nostra lingua un po’ di greco, un po’ di latino, un po’ di spagnolo, un po’ di tutto. Anche l’italiano rientra come parte del dialetto e non come ciò che lo soppianta. Il martinese puro, tale da spezzare le pietre del tempo, sta tornando a rivivere. Anche termini ormai desueti, lontani, che solo i tatanonn ( i parenti di una lontana generazione ) conoscono ritornano a vivere, a dire tutto il loro significato, a essere interpretati da un significante. Una bella mostra di realtà allo stato puro, di battute fulminanti. Ma anche la storia d’amore, con le musiche del maestro Giovanni Griffi, può riprendere uno scorcio della Martina che fu. Di una ricerca disperata di un bacio, della ricerca di una verità amorosa da conquistare. Cape toste i martinesi ma con un cuore grande così. E quell’odore di bombette, di cervellata, di gnumeredde alla brace, di fave alla caprièt rivivono nelle narici ammantate di fumi di smog. Il trullo della villeggiatura, luogo di lavoro e di sudore, oltre che di fresco e riparo dalla calura estiva, con i suoi pomodori appesi, con gli ortaggi disposti a tavola, con le mangiate luculliane durante le vendemmie sono ora solo un ricordo vissuto in agriturismi. Eppure è passato quel tempo sì, ma è anche conquista odierna quella di riascoltare quel ticchettio d’orologio che non nasconde i battiti di un cuore puramente mart’nès.
Immergetevi, anche se siete martinesi, una sera nelle viuzze del centro storico. Strade che sembrano nascondere muri si riaprono in splendidi scenari barocchi, quei balconi finemente decorati che rimani stupito dal loro attorcigliarsi, entrare nelle nostre Chiese capaci di emozionarci, vedere ancora qualche gatto posizionato dinanzi una casa a pianterreno. Oppure navigare con il proprio sguardo sui trulli della Valle d’Itria, confluenza di tre province eppure solo nostra. Non sprecate tempo nel dialogare poi nel nostro italiano se volete suscitare la battuta. Un po’ di dialetto è bello. Certo non abbiamo l’Arno per sciacquare i nostri panni. Ma abbiamo il nostro buon umore per sciacquare le nostre preoccupazioni e magari i nostri personaggi che animano ancora le piazze per sorridere. Insomma…L’Accademia è una gran bel regalo per i martinesi. Togliamone i fiocchi quando desideriamo dire che anche noi abbiamo una storia e una cultura da rivalutare e far riamare…
Antonio Cecere