Lo scorso dicembre la Giunta regionale ha approvato il Regolamento di riordino della rete ospedaliera per l’anno 2010, che fa parte del “Piano di rientro e di riqualificazione del Sistema sanitario regionale 2010-2012”, oggetto di accordo con i ministeri della Salute, dell’Economia e delle Finanze. Il Piano prevede la disattivazione quasi immediata di 1.411 posti letto, di cui 1.224 per acuti e 187 per post-acuti, la chiusura di quindici ospedali e la riconversione di tre in strutture sanitarie territoriali, facendo attestare il numero di posti letto a 3,5 per mille abitanti. Entro il 2011, inoltre, saranno disattivati 500 posti letto, di cui 130 negli enti ecclesiastici e 370 nelle aziende ed enti del Servizio sanitario regionale. Entro il 2012 saranno disattivati ulteriori 300 posti letto delle case di cura private accreditate. La deliberazione nei prossimi giorni sarà al vaglio della Commissione consiliare competente prima di approdare in Consiglio regionale.
Migliorare l’assistenza territoriale. “Il governo regionale nel chiudere gli ospedali con meno di 70 posti ha utilizzato un criterio che condivido perché i piccoli ospedali non sempre garantiscono in maniera efficiente la tutela della salute”, esordisce Filippo Anelli, segretario regionale della Federazione italiana medici di famiglia, ma “la gente protesta perché è preoccupata, dato che gli ospedali garantivano comunque la presenza di alcuni servizi che – anche se non sempre adeguati – ora sono destinati a scomparire e perché il piano non è stato spiegato chiaramente”. A questo piano di riordino però, “non è stato affiancato un adeguato piano di compensazione con i servizi di assistenza territoriale né un evidente piano di rinnovamento della rete ospedaliera”.
I criteri utilizzati “per chiudere alcuni ospedali – come il basso indice di occupazione e la volontà di evitare sprechi – sono condivisibili”, dice don Domenico Laddaga, presidente regionale Aris (Associazione religiosi istituti socio-sanitari). “Se alcuni ospedali hanno indici di occupazione bassa significa che la gente non ha fiducia nella loro capacità di guarire”, prosegue. Un ospedale offre risposte “se è sufficientemente grande e tecnologicamente attrezzato”. Inoltre, “la professionalità va di pari passo con la statistica”, poiché più si opera più è possibile acquisire professionalità.
I pugliesi vanno in altre regioni per farsi curare, “soprattutto in Lombardia, Emilia Romagna e Lazio, perché non sanno dell’esistenza di alcune eccellenze e perché non hanno qui delle risposte”. Occorre “fermare questa emorragia” che ha “un costo sociale alto”. “Mi auguro – afferma – che la chiusura degli ospedali non agevoli questa migrazione, che pesa molto di più sulle fasce deboli”. Perciò, conclude, “dobbiamo essere attenti a creare poli di eccellenza in cui ognuno possa avere il massimo possibile”.
Agensir