La lezione magistrale sulla pace del Prof. Lenoci – Lo Stradone

La lezione magistrale sulla pace del Prof. Lenoci

Lo scorso sabato 16 ottobre il professor Francesco Lenoci, docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e martinese doc, nel corso di un convegno sul tema della Pace, ha svolto la Lectio Magistralis “il fuoco della pèace secondo don Tonino Bello e San Francesco d’Assisi”.
Il Convegno, organizzato dalla Parrocchia Matrice di Fasano e dal Rotary Club di Fasano, con il patrocinio dell’Inner Wheel Club di Fasano e dell’Associazione Regionale Pugliesi di Milano, si è svolto presso la Chiesa Matrice di Fasano.

Di seguito si riporta il testo per intero della Lectio Magistralis del Prof. Lenoci.

“Il Signore vi dia la pace”.
È il saluto di San Francesco d’Assisi. Permettetemi di estendere il saluto caro a San Francesco:
– ai tanti utenti di Facebook che hanno inserito quale foto del profilo la pietra, posta all’ingresso della tomba di don Tonino Bello, su cui sono incise cinque meravigliose parole di incoraggiamento: “In piedi costruttori di pace”;
– ai tanti che riceveranno tramite e-mail la presente relazione;
– ai tantissimi che la leggeranno.
Questa è una sera speciale: il nostro incontro sul tema della pace nella Chiesa Matrice di Fasano è ispirato da un Santo e un prossimo Santo, due grandi profeti, due infaticabili costruttori di pace.
Pace . . . .Una mattina Francesco disse a frate Egidio: “Fratello Egidio, fino al nostro arrivo al prossimo paese cammineremo separati. Io davanti e tu dietro, a una quindicina di passi. Abbiamo bisogno di riempire l’anima dello spirito del Signore e della sua fortezza”.
Incontrarono lungo la strada dei contadini che falciavano il fieno. Frate Egidio si avvicinò a loro gridando “Il Signore vi dia la pace”. Ogniqualvolta incrociavano dei contadini, frate Egidio li salutava dicendo “Il Signore vi dia la pace”. Alcuni mietitori, sentendosi presi in giro, pensavano “Questo è pazzo!” e rispondevano con parolacce.
La conseguenza fu che frate Egidio perse l’iniziale entusiasmo, prese paura e incominciò a vergognarsi. Con timore si avvicinò a Francesco e gli disse: “Fratello Francesco, non capiscono questo saluto. Sono convinti che io mi prenda gioco di loro. Perché non mi permetti di salutarli come fanno tutti?”
Poiché frate Egidio non era ancora preparato a capire certe cose e meno ancora a metterle in pratica, Francesco gli rispose in maniera poco evangelica: “Non aver paura, mio piccolo agnello, questo saluto rimarrà famoso fino alla fine del mondo”. Ma in cuor suo pensava:
“Buttare dalla finestra una borsa piena di denaro, è cosa facile.
Ricevere, senza batter ciglio, delle frustrate, è abbastanza facile. Camminare fino all’altra parte del mondo, scalzo, schiaffeggiato dai venti o sulla neve, è cosa relativamente facile.
Ma . . . .mantenere la calma quando appare il fantoccio del ridicolo, non turbarsi quando ti strisciano per terra la tunica del prestigio, non arrossire allorché si è vilipesi, non battere i denti quando ti denudano della tua fama . . . .è, invece, umanamente impossibile, oppure è un miracolo dell’infinita misericordia di Dio”.
Sappiamo dalla storia che Francesco, a 20 anni, aveva preso parte alla battaglia di Ponte San Giovanni: ne era uscito sconfitto ed era finito in carcere a Perugia per undici mesi; a 23 anni dormiva a Spoleto tra il corredo di cavaliere (tunica, calzamaglia, giubbone, elmo, scudo, spada e lancia) . . . . quando, nella storia, intervenne l’infinita misericordia di Dio.
Quella notte, in sogno, una voce gli chiese: “Francesco, dove stai andando?” Rispose: “In Puglia, a combattere per il papa”. Riprese: “Dimmi: chi ti può ricompensare meglio, il padrone o il servo?” Replicò: “Naturalmente il padrone”. “E allora, perché segui il servo e non il padrone?” domandò la voce. Francesco osò pronunciare quattro parole: “Che devo fare, Signore?”
“Ritorna a casa e capirai tutto”. E così fece: la mattina seguente Francesco, la cui massima aspirazione fino a quel momento era di diventare cavaliere, abbandonò Spoleto e se ne tornò a casa.
Ci mise relativamente poco a capire e, comunque, da allora confidò nell’infinita misericordia di Dio, nell’infinita pazienza di Dio perché, a Spoleto, Francesco aveva depositato un assegno in bianco nelle sue mani.
Un giorno, nel romitorio di San Damiano, davanti al crocifisso bizantino, pregò così: “O alto e glorioso Dio, mio Signore Gesù Cristo, fammi tre regali: la fede diritta come una spada, la speranza grande come il mondo, l’amore profondo come il cuore. Tu, che sei la luce del mondo, metti carità, te ne supplico, negli abissi oscuri del mio spirito. . . .E abbi pietà di me”.
“Metti carità negli abissi oscuri del mio spirito” supplicava Francesco, più di 800 anni fa . . . . e oggi? Oggi, una simile richiesta è ancora attuale?
La risposta la conosciamo tutti: oggi, più che mai, il mondo ha bisogno di carità, perché la carità è fonte di ogni bene. È sorgente di giustizia, di comunione, di gioia, di perdono, di fratellanza, di pace.
Pace. . . . Secondo San Francesco d’Assisi “Nessuno può pronunciare la parola pace, se questa è assente dalla sua anima”. Anche lui, qualche rara volta, non sentiva la disposizione interiore per comunicare la pace. In uno di quei giorni, disse ad un frate: “Fratello, l’ansia ha aderito alla mia anima come un vestito bagnato. Come posso alzare la bandiera della pace, se l’angoscia mi soffoca? Non posso consolare i fratelli, perché non c’è consolazione nella mia anima. Fratello, lasciami solo. Va’ al paese, domanda pane e lascia loro in cambio la pace. Quando la pace sarà ritornata nella mia anima, verrò a prenderti”.
Sappiamo tutti che incominciamo ad apprezzare la salute solo quando l’abbiamo persa. Lo pensava anche Francesco. Un giorno disse a frate Leone: “Io avevo perduto la pace e ora, che l’ho recuperata, posso sapere quanto è preziosa”. E concluse: “Sarebbe segno di avarizia il volerla tenere rinchiusa dentro di me, dentro di noi, per assaporarla in segreto. Fratelli, andiamo per il mondo a seminare la pace”.
“La vita è lotta e nella lotta nasce il conflitto”. Ne era consapevole San Francesco d’Assisi che, però, aggiungeva: “Non si deve avere paura, perché è inevitabile. Ciò che importa è riconciliarsi. È il primo obbligo di ogni giorno. Non ci può essere armonia con Dio né con la terra, mentre esistono dissonanze con i fratelli, mentre fluisce la malevolenza”.
“La malevolenza” diceva San Francesco “è maledetta cloaca sotterranea che avvelena e sporca le fonti profonde della vita. La benevolenza, al contrario, è una corrente misteriosa (anch’essa sotterranea), qualcosa di simile a un sacramento invisibile che purifica le sorgenti e semina di onde armoniche gli spazi fraterni”.
Un bel giorno (rectius: un brutto giorno) Francesco venne a conoscenza che era nato un violento contrasto tra il vescovo Guido e il podestà, messer Oportolo. Questa situazione era causa di grande afflizione per Francesco. Quello che più gli dispiaceva, però, era il fatto che nessuno facesse qualcosa per arrivare ad un accordo. “È una grande vergogna per noi, servi di Dio” diceva “che il vescovo e il podestà si odino e che non si trovi nessuno che si preoccupi di dar loro una mano perché arrivino alla pace”. Ci pensò lui, da par suo, quantunque gravemente ammalato, aggiungendo una strofa al “Cantico di Frate Sole”. Chiamò a sé frate Pacifico e gli disse: “Corri ad invitare, a mio nome, il podestà, il vescovo e tutti i cittadini di Assisi affinché si rechino in piazza per ascoltare il Cantico”. Quando i frati cantarono la strofa del perdono, la gente pianse. Ve la leggo.

“Laudato si’, mi’ Signore,
per quelli che perdonano per lo tuo amore,
et sostengo infirmitate e tribulatione.
Beati quelli che ’l sosterranno in pace,
ca da te, altissimo sirano incoronati”.
La commozione generale riuscì a contagiare profondamente anche i due rivali, che fecero pace.
Pace. . . . Secondo San Francesco d’Assisi pace significa mettere a tacere il soldato che è in noi. Un giorno tre ladroni si presentarono nella capanna dei frati con l’intenzione di derubarli. Frate Angelo, che era stato cavaliere e uomo d’armi, non si fece intimorire e disse loro: “È meglio che vi avvisi prima. Più di una volta ho diviso in due, con un solo colpo di spada, canaglie come voi. Anche se non ho la spada, ho dietro la porta un bastone e lo adopererò per rompervi la schiena”. Senza aspettare risposta, prese il bastone e incominciò a menare colpi. A quella vista i ladroni si diedero alla fuga. Era stata una vittoria del vecchio soldato. I frati si divertirono molto e scherzarono sull’accaduto. A sera, euforici, raccontarono ciò che era successo a Francesco che, però, non abbozzò un minimo segno di sorriso.
Pensava: “Tutti portiamo dentro di noi un soldato. Il soldato serve sempre per mettere in fuga, ferire, uccidere. Per conseguire una vittoria militare! Ma quando mai una vittoria militare ha costruito una famiglia, un paese? Con la spada non si semina né frumento, né speranza.
Che guadagno ci può essere nell’aggredire le tenebre? Basta solo accendere una luce e le tenebre fuggono spaventate. Se si pretende di distruggere una guerra con un’altra guerra, si creerà un conflitto ancora più grande.
Anche se non è affatto evidente, la pace è più forte del male, perché Dio è il sommo bene. Non esiste nemico in questo mondo che resista a lungo alla bontà e all’amore. Non c’è odio che non possa essere neutralizzato dalla forza dell’amore.
Chi è più forte: il fuoco o l’acqua? Il mondo afferma che odiare è dei forti. Cristo risponde: chi perdona è il più forte. L’odio è il fuoco; il perdono è acqua. Si è visto qualche volta che il fuoco vinca sull’acqua? Quando si scontrano, il fuoco ha sempre la peggio.
Che cosa si guadagna lamentandosi dei mali che ci attorniano? Quando si dice tutto è perduto, qui tutto è finito, la speranza alza la sua bandiera e dice . . . . qui tutto inizia. La speranza è più forte dello sconforto, il bene superiore al male.
I frati “minori” andranno per il mondo con una bandiera ben visibile, la bandiera della povertà. Sulla cima della bandiera dovranno vedersi queste parole: pace e amore”. (Cfr. Ignacio Larranaga, “Nostro Fratello di Assisi”, Edizioni Messaggero Padova, 2008).
Io non ho avuto la grazia di conoscere, di persona, don Tonino Bello. Ma sono certo che i presenti che l’hanno conosciuto possono testimoniare il suo attaccamento alla bandiera con sopra incise le parole pace e amore. Don Tonino entrò nell’Ordine Francescano Secolare il 1° gennaio 1962, a 26 anni.
Nell’orizzonte spirituale di don Tonino Bello Francesco vuol dire: fraternità, povertà, minorità, letizia, riscoperta della dimensione materna e femminile, un nuovo spazio di autonomia della coscienza all’interno del dialogo con Dio, l’abolizione della categoria del nemico, la ricerca costante del perdono e della pace, l’amore per la vita, una nuova forma evangelica del vivere, una visione cosmica dell’esistere.
E ancora, la persuasione che: il male si vince con il bene, l’errore si vince con la testimonianza della verità, l’odio si vince con l’amore. (Cfr. Renato Brucoli, “L’alfa”, in Maria, Edizioni Messaggero Padova, 2008).
Alla “Giornata mondiale della pace” è dedicato dal 1968 il primo giorno dell’anno: tutti i cristiani e le persone di buona volontà sono chiamati dal Papa a riflettere e pregare per il bene più grande per l’umanità, che si chiama pace.
Lo sappiamo tutti: la pace fa paura, perché costa più della guerra. Non si riduce a donare qualche briciola di ciò che per noi rappresenta il superfluo, ma pretende la conversione del cuore.
La pace non si costruisce solo con le parole ma, anche e soprattutto, con i fatti, vale a dire – come ci ha insegnato don Tonino Bello – passando dalla teoria alla pratica seguendo le parole del Signore: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. La pace che io vi do non è come quella del mondo: non vi preoccupate, non abbiate paura”.
La pace non si semina a parole e si concretizza, anche, nei semplici gesti della vita quotidiana: salutando, sorridendo, prevenendo un desiderio o una necessità del prossimo che ci vive accanto, ascoltando chi non cerca parole ma comprensione.
La prima e la più importante palestra, dove fare quotidianamente esercizi che permettano di diventare costruttori di pace, è la famiglia. I genitori debbono sapere che educarsi alla pace (e non solo educare alla pace) è la base per qualsiasi processo di formazione della persona. Quando si parla di vera educazione, il relativo verbo ammette solo la coniugazione riflessiva: educarsi. Perché chi educa è educato e chi è educato . . . .educa.
La pace si fortifica a contatto con l’altro, man mano che si cresce e crescono i contatti con le persone, ognuna delle quali ci arricchisce con la propria cultura, le proprie tradizioni, la propria fede. Dobbiamo imparare a comprendere le differenze come doni offerti e non come barriere che dividono.
L’arcobaleno, con i suoi sette colori, è il simbolo della pace non solo perché appare alla fine di un temporale e segna l’inizio della “quiete dopo la tempesta”, ma perchè rappresenta la convivenza dei tanti colori dell’iride che, con la loro straordinaria differenza, formano un arco meraviglioso, capace di abbracciare tutto il cielo per poi fondersi, nuovamente, nell’unico raggio luminoso.
L’educazione alla pace trova la sua sorgente e il suo alimento nella figura di Gesù Cristo: nelle sue parole e nelle sue azioni. Gesù si è manifestato come datore di pace. Gesù è la fontana antica alla quale tutte le persone di buona volontà possono recarsi per attingere l’acqua viva che disseta, l’acqua che dona refrigerio e pace (Cfr. Luigi Ferraresso, “Gesù di Nazaret: la fontana antica”, in Pace, Edizioni Messaggero Padova, 2006).
Pace, secondo don Tonino Bello, non è una parola . . . .ma un vocabolario.
Pace è un cumulo di beni. È la somma delle ricchezze più grandi di cui un popolo o un individuo possa godere.
Pace è giustizia, salvaguardia del creato, libertà, dialogo, crescita, uguaglianza.
Pace è riconoscimento reciproco della dignità umana, rispetto, accettazione dell’alterità come dono.
Pace è temperie di solidarietà: l’imperativo morale che noi credenti chiamiamo “comunione”.
Pace è il frutto di quella che viene indicata come “etica del volto”: un volto da riscoprire, da contemplare, da accarezzare.
Pace non è la semplice distruzione delle armi. E non è neppure l’equa distribuzione dei pani a tutti i commensali della terra. Pace è mangiare il proprio pane a tavola insieme con i fratelli.
Di qui il nostro compito: dire alle nostre comunità, alle nostre città, in cui serpeggiano dissidi, di saper stare insieme a tavola.
Non basta mangiare, bisogna mangiare insieme! Non basta avere un pane e ognuno se lo mangia dove vuole: bisogna poterlo mangiare insieme!
Di qui la nostra missione: sedere all’unica tavola, far sedere all’unica tavola i differenti commensali senza schedarli, senza pianificarli, senza omologarli, senza uniformarli.
Questa è la pace: convivialità delle differenze.

Cito una meravigliosa esortazione di don Tonino Bello alla pace:
“Il Signore è sceso sulla terra assetata di pace
e ha scavato il pozzo artesiano della pace,
servendosi della Croce come se fosse una trivella. . . .
Adesso è compito nostro portare l’acqua in superficie
e farla arrivare fino agli estremi confini della terra”.
Dobbiamo impegnarci affinché la pace giunga fino agli estremi confini della terra. Ma è difficile! Come si fa?
La lucidissima analisi di don Tonino è che dobbiamo impegnarci in scelte di percorso, in tabelle di marcia: non possiamo parlare di pace indicando le tappe ultime e saltando le intermedie! Se non siamo capaci di piccoli perdoni quotidiani fra individuo e individuo, tra familiari, tra comunità e comunità . . . .è tutto inutile! La pace non è soltanto un pio sospiro, un gemito favoloso, un pensiero romantico ma è, soprattutto, prassi.
Osserva don Tonino: “L’acqua è una: quella della pace. Le tecniche di conduzione, invece, . . . . sono diverse e diverse sono anche le ditte appaltatrici delle condutture. Ed è giusto che sia così!
L’importante è che queste tecniche siano serie, intendano servire l’uomo e facciano giungere l’acqua agli utenti:
1) senza inquinarla;
2) senza manipolarla;
3) senza disperderla;
4) senza trattenerla;
5) senza accaparrarsela;
6) senza farsela pagare”.
Chiarisce don Tonino:
1) “Se lungo il percorso si introduce del veleno, non si serve la causa della pace;
2) se nell’acqua si inseriscono additivi chimici, magari a fin di bene, ma derivanti dalle proprie impostazioni ideologiche, non si serve la causa della pace;
3) se lungo le tubature si aprono falle, per imperizia o per superficialità o per mancanza di studio o per difetti tecnici di fondo, non si serve la causa della pace;
4) se nei tecnici prevale il calcolo e si costruiscono le condutture in modo tale che vengano favoriti interessi di parte e l’acqua, invece che diventare bene di tutti, viene fatta ristagnare per l’irrigazione dei propri appezzamenti, non si serve la causa della pace;
5) se gli esperti delle condutture si ritengono loro i padroni dell’acqua e non i ministri, i depositari incensurabili di questo bene di cui devono sentirsi solo i canalizzatori, non si serve la causa della pace;
6) se i titolari della rete idrica si servono delle loro strumentazioni per razionare astutamente le dosi e schiavizzare la gente prendendola per sete, non si serve la causa della pace”.
Servendo la causa della pace . . . . si serve l’uomo: è questa la conclusione cui perviene don Tonino Bello, ammonendo circa i tanti casi in cui, per interesse o imperizia, non si serve affatto la causa della pace. (Cfr. Renato Brucoli, “Cieli nuovi”, in Pace, Edizioni del Messaggero Padova, 2006).
Permettetemi di fare un domanda difficile, brutta, infame, terribile: nel mondo, adesso, prevalgono concetti quali pace, amore e amicizia . . . . oppure concetti quali guerra, odio e inimicizia?
La risposta, per chi va in edicola e per chi è dotato di telecomando e di mouse, purtroppo, è scontata.
La risposta. . . . sarei felicissimo se potessi ricredermi . . . . purtroppo, è che giornali, riviste e notiziari che parlano di guerra, odio e inimicizia sono diventati familiari alla maggioranza dei popoli della terra.
I giochi elettronici, che riscuotono il maggior gradimento dai nostri figli, sono quelli in cui possono impugnare una mitragliatrice, per sparare a qualsiasi cosa si muova. Quei giochi, intrisi d’odio, glieli regaliamo noi genitori, noi nonni, noi zii, noi fratelli . . . .
La metropolitana di Milano in questi giorni è tappezzata dai cartelloni relativi ad un musical campione di incassi a livello mondiale. Lo slogan pubblicitario scritto a caratteri cubitali, adottato per catturare l’attenzione, lascia agghiacciati: “Vietato alle famiglie modello”.
Non voglio parlare di cose più grandi di me . . . . parlo delle cose che conosco: la cultura d’impresa e la cultura sportiva.
Ebbene, per evocare impegno, determinazione e successo . . . . per favore, se sbaglio, correggetemi . . . .tante volte, troppe volte . . . . si evocano le battaglie, le guerre . . . . cose che ammazzano e basta!
Dice don Tonino: “Dovremmo chiedere al Signore la grazia dell’indignazione, perché non sempre ci indigniamo”.
E ancora: “Dio che diventa uomo ci faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera . . . diventa idolo della nostra vita, il sorpasso . . . . progetto dei nostri giorni, la schiena del prossimo . . . . strumento delle nostre scalate”.
E ancora: “Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla nostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che non lontano da noi, con l’aggravante del nostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si eseguono pignoramenti, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame”.
È mio profondo convincimento che con la militarizzazione dei territori non si ottiene nulla. Occorre pensare e provvedere alla socializzazione delle persone che vivono nei territori, all’educazione delle persone.
Per tanto tempo si è pensato che l’educazione riguardasse, in buona sostanza, i bambini e gli adolescenti.
Non è così, come emerge – anche – dal testo di una canzone di “Jovanotti” (che parla di un bambino che cresce e, crescendo, si abbrutisce):
Un uomo guarda la sua mano
sembra quella di suo padre
quando da bambino
lo prendeva come niente e lo sollevava su.
Era bello il panorama visto dall’alto
si gettava sulle cose prima del pensiero
la sua mano era piccina ma afferrava il mondo intero.

Ora la città è un film straniero senza sottotitoli
le scale da salire sono scivoli, scivoli, scivoli
il ghiaccio è sulle cose
la tele dice che le strade sono pericolose.
Ma l’unico pericolo che sente veramente
è quello di non riuscire più a sentire niente:
il profumo dei fiori, l’odore della città,
il suono dei motorini, il sapore della pizza,
le lacrime di una mamma, le idee di uno studente,
gli incroci possibili in una piazza . . . .
(Cfr. Lorenzo “Jovanotti” Cherubini, Fango)
La domanda che sorge spontanea è come fanno simili adulti, come facciamo noi adulti, a incarnare valori realisticamente perseguibili, a testimoniare una vita ricca di senso e di significato?
La risposta è che occorre educare gli adulti e, quindi, che occorrono nuove competenze operative per i docenti, da individuare attraverso adeguati approcci metodologici (Per tutti Maria Luisa De Natale – Saverio Monno, “Educare gli adulti”, Armando Editore, 2007).
Ma manca ancora qualcosa. . . .e faccio ancora una volta ricorso a don Tonino Bello, ad una sua meravigliosa preghiera. La preghiera si intitola “Preghiera sul molo”, ma da tutti è conosciuta come “La lampara”. Ne leggo un frammento:
“Concedi, o Signore, a questo popolo che cammina
l’onore di scorgere chi si è fermato lungo la strada
e di essere pronto a dargli una mano
per rimetterlo in viaggio”.
È stupefacente la richiesta di don Tonino (concedi l’onore di scorgere chi si è fermato lungo la strada . . . .), ma a me convince, eccome se convince. Riflettiamoci insieme . . . . Chi, secondo voi, adesso, è fermo lungo la strada, incapace di proseguire il cammino da solo? . . . .
Quando penso a qualcuno fermo lungo la strada. . . .io penso ai giovani, oggi mortificati da un’istruzione in certi casi inadeguata, da un mercato del lavoro che sovente li discrimina a favore dei più anziani, da un’organizzazione produttiva che troppo spesso non premia il merito, non valorizza le capacità.
E chi sono i giovani? . . .Sono il futuro dell’umanità!
A tale punto fermo associo una frase tanto cara a Donato Menichella, un grande Governatore della Banca d’Italia: “Il futuro nostro, dei nostri figli . . . . sta in noi, in tutti noi”.
Dobbiamo fare di tutto, dobbiamo fare di più . . . . per stimolare in tutti, nei giovani in particolare, una creatività più fresca, una fantasia più liberante e la gioia turbinosa dell’iniziativa.
Dobbiamo convincerci e convincerli che, per crescere, occorre spalancare la finestra del futuro, progettando insieme, osando insieme, sacrificandosi insieme.
La domanda da porci è perché continuiamo a correre verso “Samarcanda”, dove non ci aspetta che guerra, distruzione, morte? Come si può cambiare direzione?
Don Tonino Bello ci ha indicato le tre pietre che scatenano una cultura di guerra, che dobbiamo svellere:
1) profitto, nel senso di tentazione economica;
2) potere, nel senso di tentazione politica;
3) prodigio, nel senso di tentazione fatalistica.
Non si costruisce la città nuova con tali pietre. Sono pietre antiche: dobbiamo rimuoverle.
Le tre pietre che costruiscono la cultura della pace sono:
1) parola;
2) protesta;
3) progetto.
Sono queste le tre pietre che dobbiamo usare per costruire una città nuova intorno alla “fontana antica”.
In dettaglio, don Tonino Bello indica:
­ nel superamento dell’ideologia del nemico. . . . il presupposto della convivenza tra i popoli;
­ nel dialogo e nella solidarietà . . . .l’alternativa alla logica delle grandi potenze;
­ nella forza delle trattative diplomatiche . . . .la soluzione dei conflitti armati;
­ nella difesa popolare non violenta . . . .il cardine della sicurezza nazionale;
­ nell’impegno per la giustizia e la salvaguardia del creato . . . .la strada privilegiata di ogni liberazione;
­ nella fraternità . . . .il compimento degli ideali di giustizia e di libertà;
­ nell’educazione alla pace, da introdurre nei processi formativi, . . . .un potente fattore di crescita umana;
­ nel dialogo interreligioso . . . .un apporto non trascurabile per la ricomposizione della famiglia umana (Cfr. Renato Brucoli, “L’alfa”, in Pace, Edizioni Messaggero Padova, 2006).
Con la sua parola e il suo esempio don Tonino Bello, un grande profeta, riaccende la speranza: quella di un mondo che nel terzo millennio riscopre la carità e la giustizia, che accoglie la diversità e ripudia la violenza.
Vivere nella speranza significa vivere un nuovo rapporto con le cose: avere le cose non significa possederle in modo egoistico, ma condividerle. La condivisione non è perdita delle cose, ma un loro possesso più forte e ampio.
Vivere nella speranza inaugura anche un nuovo modo di relazionarsi con le persone, per cui si passa dal bieco egoismo al dono, al perdono, alla comunicazione, al riconoscimento: si crea una cultura della convivialità.
San Francesco d’Assisi e don Tonino Bello sono esempi concreti e convincenti di come si possa attuare una cultura della condivisione e della convivialità.
Se decidiamo di non voler andare a “Samarcanda”, non dobbiamo fare altro che imitare, nel nostro piccolo, l’esempio che ci hanno dato. San Francesco d’Assisi e don Tonino Bello sono e saranno felicissimi di aiutarci. Intercede e intercederà per noi anche la Madonna, cui rivolgiamo la seguente meravigliosa preghiera di don Tonino Bello.
“Santa Maria, donna del primo passo, chi sa quante volte, nella tua vita terrena, avrai stupito la gente per avere sempre anticipato tutti gli altri agli appuntamenti del perdono.
Chi sa con quale sollecitudine, dopo aver ricevuto un torto dalla vicina di casa, ti sei alzata per prima, hai bussato alla sua porta e l’hai liberata dal disagio non disdegnando il suo abbraccio. . . .
Donaci, ti preghiamo, la forza di partire per primi ogni volta che c’è da dare il perdono. Rendici, come te, esperti del primo passo. Non farci rimandare a domani un incontro di pace che possiamo concludere oggi. Brucia le nostre indecisioni. Distoglici dalle nostre calcolate perplessità. Liberaci dalla tristezza del nostro estenuante attendismo. E aiutaci perché nessuno di noi faccia stare il fratello sulla brace, ripetendo con disprezzo: tocca a lui muoversi per primo”.

Mi avvio alle conclusioni con una meravigliosa preghiera di San Francesco d’Assisi.
“Gesù crocifisso, in questa sera rinuncio a tutto e ti consegno la moneta necessaria perché vengano protezione benefica su tutti i nidi umani e il sorriso gioioso sugli occhi dei bambini.
In questa sera escano le api sui campi fioriti, si ritirino gli eserciti nelle loro caserme di pace, possano abbandonare i loro letti gli ammalati e uscire dagli ospedali.
In questa sera voglio illuminare con la mia lampada tutti i pellegrini, i prigionieri e gli esiliati.
Voglio piantare un roseto in ogni famiglia, far piovere sui campi bruciati, far nascere venti che portino speranza, aspettare alla porta tutti coloro che rimpatriano, essere bastone per lo zoppo, guida per i ciechi, madre per gli orfani e correre, correre. . . . correre con un cesto in braccio per seminare la pace”.

Permettetemi di concludere questa relazione, raccontando una fiaba.
Una contadina portava l’acqua dal pozzo a casa servendosi di due secchi, ciascuno sospeso all’estremità di un palo che lei portava sulla schiena. Uno dei secchi aveva un buchino, mentre l’altro era perfetto. Il primo perdeva lungo il tragitto la metà dell’acqua; il secondo neanche una goccia. Il primo secchio si vergognava del proprio difetto; il secondo secchio era orgoglioso dei suoi risultati.
Un giorno, non si sa come non si sa perché, il primo secchio si fece forza e ne parlò con la contadina.
Le disse: “Ti sei accorta che perdo la metà dell’acqua lungo il tragitto?”
Rispose la contadina: “Ti sei accorto che ci sono dei fiori dalla tua parte del sentiero e non dall’altra parte? Avendo sempre saputo del tuo difetto, ho piantato dei semi di fiori dalla tua parte del sentiero e tu li hai sempre annaffiati. E quei fiori, bellissimi, li ho portati a casa, rendendola molto più accogliente”.

La morale della fiaba è che:
– se non ci si sente coinvolti in profondità, fin nel profondo della nostra mente, del nostro cuore e della nostra anima (come il primo secchio);
– se ciò che sta accadendo è percepito come un fatto esteriore ed estraneo, che scorre accanto alla nostra esistenza senza intaccarla (come ha fatto il secondo secchio);
– tutto risulterà superfluo e vano e continueremo a correre verso “Samarcanda”.
Se, al contrario, si passa seriamente:
– dall’ “io”, da ciò che accade a me;
– al “noi”, a ciò che riguarda direttamente e indirettamente tutti (come ci ha insegnato la contadina);
allora il mondo, anche quello in difficoltà, si accorgerà che su questa nostra povera terra il rosso di sera non si è ancora scolorito.

di Francesco Lenoci

Docente Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano
Vicepresidente Associazione Regionale Pugliesi – Milano